Il fiore – Alfredo, fratello comboniano

Ma se d’amore cerco le ragioni,

quelle giuste per viverne e morire,

l’amore vero, non «le mie prigioni»,

l’amore che ama, che ti fa fiorire,

allora trovo Gesù Nazareno,

che fu crocifisso sulle spine,

spirito che brucia legna verde e fieno

e fa desiderar la stessa fine.

KIPKELION

(18 maggio 1989)

A Kariobangi, una missione tra le baraccopoli di periferia ad est di Nairobi, in quella che per più di vent’anni è stata la casa del comboniano padre Alex Zanotelli, Alfredo presta servizio da medico. In quelli che Zanotelli ha definito spesso come ‘gli inferi della Terra’, Alfredo si scopre davanti al bivio della sua scelta vocazionale: medico o sacerdote. Un cammino che diventa ancora più radicale per gli ultimi e tra gli ultimi. Nella lettera ai superiori del 3 febbraio 1989 condensa il suo travaglio interiore e condivide il frutto del suo discernimento: Vi chiedo di essere accettato come Fratello nella Congregazione dei Missionari comboniani. Quel camice bianco di medico sarà la sua casula, il suo grembiule, la sua stola per portare agli ultimi, a tempo pieno, consolazione, conforto, cura.

Ora tutto è più chiaro e condiviso con i superiori: nove mesi, tra il maggio 1989 e il marzo 1990, a Liverpool per il corso di medicina tropicale. È l’anticamera per un impegno completo in terra d’Africa. In attesa del visto di entrata per il Mozambico, Alfredo accoglie l’invito di padre Locatelli a Kalongo (Uganda), per un fecondo tirocinio sulla scia dell’eredità lasciata da padre Giuseppe Ambrosoli.

Dopo una preparazione linguistica a Lisbona, il 3 febbraio 1991 sbarca finalmente in Mozambico, in cui tutto ha il gusto amaro della guerra, della distruzione. Tutto, proprio tutto, è da rifare: “Eccomi dunque arrivato in Mozambico; ho atteso circa una settimana nella capitale Maputo per trovare un posto nell’unico aereo per il nord. Sono arrivato Nampula, capoluogo della provincia, il 22 febbraio. A Namapa, l’ospedale distrutto dalla guerra vede Alfredo all’opera dapprima come muratore, poi come medico mozambicano, ovvero uno di loro, con il salario minimo e senza alcun privilegio, capace di parlare il dialetto del popolo, la lingua macua. Questo gli dà l’opportunità di incontrare, consolare, evangelizzare, come parte di un’equipe formata da missionari comboniani e suore carmelitane.

Soffiano i venti di una guerra ormai consolidata tra la Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo, organizzazione di opposizione al governo) e il Fronte di Liberazione Mozambicana (Frelimo, di stampo marxista-leninista) salito al governo dopo un colpo di Stato nel 1980: “il Mozambico – racconta Alfredo – si trova in una situazione estremamente precaria, devastato dalla guerra civile, fomentata in gran parte da interessi estranei. […] Spinta da una parte dai guerriglieri [Renamo] e dall’altra dall’esercito [Frelimo], la gente del Mozambico non fa altro che fuggire da un posto all’altro per salvarsi, perdendo ogni volta casa, raccolto e vite in gran numero”.

Nell’avvio del suo lavoro in ospedale – emergenza chirurgica, medicina curativa e preventiva – si reca a Quelimane da padre Aldo Marchesini, estremamente vicino per umanità e sensibilità: “Sono venuto per ‘rubargli’ qualche segreto professionale e anche un po’ della sua spiritualità, estremamente ricca e profonda. È un uomo eccezionale ed è ottimista sulla situazione, anche medica, del paese”. Entrambi medici e missionari, ma anche un po’ mistici, poeti, musicisti, spiriti liberi perché totalmente rivolti a Dio e agli ultimi… Alfredo parla di una “speranza che deve portarci a essere realisti, a non nasconderci i problemi, che sono tantissimi. Ma soprattutto a non nasconderci la sofferenza della gente, che è enorme”.

A Namapa infatti incontra difficoltà enormi, molto più di quelle che si aspettava: sabotaggi, sottrazioni di farmaci, attrezzature e perfino di lenzuola. Nel totale silenzio delle autorità locali alle quali si rivolge più volte per segnalare i sabotaggi. Quello che accade lo mette a dura prova ma è con queste parole, legate al brano del vangelo di Matteo 11, 28 che commenta ciò che accade: “Ho accolto questa Parola per me, come un invito e come uno svelamento del Volto di amore di Dio. Sento mia questa Parola perché i miei anni non sono passati leggeri, ma hanno lasciato segni profondi, come i carri sulle strade di campagna. Di noi viventi e di quanti esiste Tu, Signore, sei sostentamento e pane, acqua di vita nella sofferenza e nella morte che sperimentiamo ogni giorno. Vengo a Te; Tu solo leggi dentro di me se le mie intenzioni sino abbastanza pure. Con certezza so che deserto e silenzio non si riempiono solo del mio moto, e che, afferrato alla tua mano, conoscerò una continua liberazione”.

Impossibilitato a condurre la propria attività clinica nel dispensario di Nacala, si sposta nel vicino ospedale missionario di Alua, gestito dalle suore comboniane.

Il febbraio del 1992 segna l’inizio di una nuova ondata di scontri e guerriglie che aggravano la situazione del Paese mentre a Roma i missionari comboniani collaborano con la Comunità di Sant’Egidio, impegnata a favorire un accordo di pace tra le parti. Alfredo lavora instancabilmente con l’aiuto delle suore nella scarsità di mezzi operatori, dal tavolo ai bisturi ai fili di sutura. Progetta la costruzione di portantine con ruote per il trasporto dei malati, ne sogna il finanziamento con l’aiuto della Caritas. Studia insieme al vescovo di Nacala un piano di assistenza sanitaria organica per tutto il territorio della diocesi. A giugno imperversa una spaventosa emergenza alimentare che miete vittime di anemia. La violenza fa sentire la sua recrudescenza mentre Alfredo è asserragliato nell’ospedaletto dove cura malati e feriti, sempre più numerosi.

Il 10 agosto del 1992 si reca a Nacala, nella residenza del vescovo, per cercare non solo un po’ di riposo ma per guardare insieme al futuro della missione, dell’ospedale e per confrontarsi sui progetti e sugli interventi da concretizzare per quella terra martoriata.

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